È l’unica metropoli dei Caraibi, è una delle città più cantate al mondo

Da far invidia a Napoli, non fosse che per il traffico, infinitamente più contenuto. L’Avana sta cadendo a pezzi, ma lo fa con uno stile impeccabile, una classe suprema. E’ la capitale della decadenza, nonché di uno sciagurato esperimento sociale che, se pure garantisce alla sua gente la sopravvivenza, una discreta educazione e un accesso minimo alle cure sanitarie, ha messo il bavaglio alla voce dell’opposizione.

In ossequio a ciò, Mark Kurlansky, giornalista americano che a Cuba ha passato molto tempo dagli anni Ottanta a oggi, ha scritto un saggio abile e profondo che, pur peccando qua e là di qualche consapevole reticenza, fa venir voglia di visitare la capitale domani, anzi subito: L’Avana, un delirio subtropicale(Bompiani, pp. 290, euro 19, trad. di Francesco Peri).

Lui, non lo avrebbero lasciato andare avanti e indietro con gli Usa così a lungo se fosse stato più critico. Non che non lo faccia capire, soprattutto quando sottolinea l’indomito senso dell’ironia cubano. E’ così che questa popolazione abituata a ridere in faccia come nessun altro al mondo alle ingiustizie e alle avversità affronta ogni fardello quotidiano.

Degli abitanti originari, i Taino, è rimasto il lontano ricordo e qualche goccia di sangue talmente diluita da non farci più caso. E una marca di birra avanese, la Hatuey, che nessuno vuole.

All’Avana sono passati gli spagnoli, gli inglesi, i francesi, i pirati che l’hanno depredata a più non posso, gli schiavi neri dall’Africa che si sono affrancati più tardi di tutti, solo alla fine dell’Ottocento. E gli americani.

Dalla mescolanza con i bianchi è nata una delle meraviglie dell’isola: la donna mulatta. Il capolavoro della letteratura cubana, Cecilia Valdés, di Cirilo Villaverde, pubblicato nel 1882, ha per protagonista una ragazza di sangue misto che fa perdere la testa a un ricco bianco e che testimonia in letteratura quello che ciascuno può constatare anche nelle prime tre ore successive allo sbarco: c’è solo una donna più affascinante della mulatta: la mulata habanera. E, per qualcuno, il mulato habanero.

Due sono gli aspetti sociali che nemmeno il pugno di ferro dei fratelli Castro (il secondo molto meno carismatico del primo) è riuscito a correggere: la prostituzione e l’omosessualità. Quanto alla prima, tutto si svolge in modo così sottile e sfumato, che il mercimonio, l’interesse, la simpatia, la passione, perfino l’amore risultano spesso inscindibili e inestricabili. I freddi animi europei e nordamericani, nella loro componente maschile, ma non solo, si sciolgono come il calippo nel sole d’agosto.

Riguardo alla seconda, da reato che fu, punito ferocemente da Che Guevara e dal primo Castro (vedere lo scrittore Reinaldo Arenas e il suo calvario), è diventata comune e esibita con disinvoltura, per non parlare dei trans. Il che è frutto di una sterzata culturale che ha avuto il suo apogeo culturale in un film, Fresa y chocolate(Fragola e cioccolato), visto e premiato in tutto il mondo.

L’autore spiega: “Cuba è uno stato di polizia che accetta la critica sociale senza battere ciglio”. Ne è un segno la pratica del doppio sensio che serpeggia in ogni discorso a sfondo politico. Questa è un’isola che ha ispirato ribellioni di ogni tipo, non solo quelle degli schiavi, ma anche quella dell’indipendenza nazionale, con il poeta José Martì, stella della cubanità, morto a 42 anni in battaglia, ma alquanto goffamente, per la verità, non sapendo governare il cavallo.

Suoi i versi che hanno ispirato Guantanamera, la canzone di culto che cattura l’ascoltatore a ogni angolo di strada, e dentro i bar dove Hemingway era solito innaffiare la sua sete d’alcol.

Nella fascinosa serie televisiva Habana Noir, il detective Mario Conde, scrittore mancato e alcolista, si muove tra le quinte di quel teatro sgarrupato e con le tessiture fantasmagoriche dei cavi elettrici e i marciapiedi tutti sbreccati. “Ci hanno promesso un futuro luminoso,” commenta con i suoi amici, “e ce lo hanno dato: otto ore di futuro luminoso e otto di apagòn”. Laddove il blackout ricorrente è una metafora adeguata di un paese baciato dalla luce stordente dei Caraibi e avvolto nella darkness di un romanzo di Graham Greene.

Sincretismo religioso, musica sfrenata e pervasiva, gli avvoltoi che volano alti anche sopra i grattacieli, gli Stati Uniti che incombono. I tratti di un luogo della mente testimone di una personalità ineludibile.

Su una cosa sola Kurlansky sembra sorvolare: la distinzione etnica, evidente nelle gerarchie e tra le professioni più autorevoli. In più, i profughi, gli esuli e gli emigrati a Miami sono quasi tutti bianchi, come lo è la maggioranza della classe dirigente isolana.

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