Paolo Bianchi
Su ogni catastrofe cala un silenzio. Quello che incombe sulla città fantasma di Pripyat, accanto al reattore nucleare 4 di Chernobyl, in Ucraina, è intenso come doveva esserlo dopo il 27 aprile di 35 anni, quando con mille pullman si compì l’evacuazione di oltre 47mila persone, quasi tutti gli abitanti, eccettuati quelli che rimasero per arginare il disastro e che in tanti pagarono con la vita.
La nuvola radioattiva, spinta dal vento, investì la metropoli di Kiev, si sparse in Europa, fu dapprima individuata in Svezia, arrivò anche nel Norditalia. Una sciagura targata Unione Sovietica, l’episodio nefasto che diede una spallata al pericolante blocco comunista. Ma questa è storia risaputa.
Oggi la “zona di esclusione”, un’area dal raggio di trenta chilometri intorno alla centrale ormai spenta, è il museo a cielo aperto di un’utopia rovinosa. Una bolla nel tempo. Al centro, la città di Pripyat, già orgoglio urbanistico, costruita per i dipendenti, è ormai scheletro di se stessa, percorsa solo dai passi degli “stalker”, giovani cultori dell’omonimo film di Andreij Tarkovsky. Bucano i severi controlli per infiltrarsi nell’area proibita e aggirarsi di nascosto nel labirinto di ruderi. A loro si aggiungono i fanatici del “dark tourism”, il turismo nero, una forma di viaggio dal forte senso esorcistico. Sono spinti da curiosità morbosa verso le atmosfere di morte e distruzione. Vengono da tutto il mondo: inglesi, tedeschi, americani, spagnoli. Non molti gli italiani, per ora.
La loro è solo ricerca di un brivido oscuro o anche un’autentica attenzione alla storia? Me lo chiedo mentre il pulmino scivola tra boschi di pini, pioppi, betulle. Un verde pastoso sotto un grande cielo cobalto, salvo la porzione di foresta che divenne rossa in seguito al fallout radioattivo. Altre aree, nel tempo, sono state consumate dagli incendi. A spiegarmelo è la mia guida e interprete Tanya, che qui ci viene ancora tutti i giorni, nonostante suo marito, originario di queste parti, sia morto appena un mese fa, di cancro.
“Ben vengano i visitatori,” mi dice, gli occhi cerulei puntati al sentiero d’asfalto eroso, mentre camminiamo fra le macerie invase dalla vegetazione, come fra i resti di un tempio cambogiano. “Per attirare molti turisti in Ucraina basterebbe far saltare in aria un’altra centrale. Ne sono rimaste quattro”. Tanya, oltre che vedova, è orfana. I suoi sono morti entrambi nel giro dello stesso anno. Indovinate di che cosa.
Ma ecco finalmente l’incontro con quella che nacque per essere una città modello, e oggi non ne è che lo spettrale simulacro: la scuola, l’asilo, l’ospedale, la palestra, la piscina, il cinema, l’ambizioso hotel Polissja, il parco giochi con gli autoscontri e la ruota panoramica. Ci si aggira a piedi, con lo stesso stupore dei sopravvissuti. In ogni edificio i pavimenti sono dissestati, piovono calcinacci, l’acqua e il gelo staccano le piastrelle, una patina bruna cancella i dipinti murali e le scritte trionfanti sul radioso futuro del socialismo. Entrare in queste carcasse edilizie biancastre di polvere diventa sempre più pericoloso, presto sarà vietato. Il paesaggio urbano è tetro anche in una bella giornata di fine estate. I palazzoni condominiali in stile brutalista sono grandi teschi grigi, le finestre, dai vetri infranti e i serramenti divelti, orbite vuote. L’estetica romantica delle rovine diventa estetica postmoderna della catastrofe.
E ovunque, come macabre installazioni, si rivelano gli oggetti un tempo comuni di una quotidianità interrotta per sempre: comodini sfasciati, letti sfondati, barattoli di vetro offuscato, bambole amputate, una sedia ginecologica corrosa dalla ruggine. Non ci si può sedere da nessuna parte, né si possono appoggiare oggetti a terra. Alcuni noleggiano un contatore Geiger, che si attiva oltre un certo limite di sievert (l’unità di misura della contaminazione da radiazioni). Niente di inquietante, si arriva a 30 microsievert, laddove una qualsiasi Tac ne rilascia 10.000. Chi intervenne subito dopo l’esplosione ricevette in corpo in media 6-7 sievert, cioè sei o settecento volte tanto, di solito quanto basta a mandare un uomo al Creatore. Chi si avvicinò al punto del meltdown ne ricevette anche 50, e morì in pochi minuti.
“Ma non aspettarti d’incontrare animali mutanti o zombie, non siamo in un videogioco (il famosissimo Stalker, ndr), né in un film horror di serie b,” dice la guida. Animali a norma invece ce ne sono parecchi: cani bastardi affettuosissimi, gli enormi pesci gatto del fiume Pripyat e, al limitare della strada, cavalli allo stato brado, perfino un’aquila coda bianca; da lassù gode della visione d’insieme che un viaggiatore spagnolo cerca invano di ottenere con un drone (la polizia glielo sequestrerà, controllerà le immagini e ne cancellerà diverse). L’intera zona è un’oasi naturalistica: volpi, mi dicono. Cinghiali, gatti selvatici, caprioli, lupi.
Il reattore numero 4 è a tre chilometri in linea d’aria dall’iconico parco giochi. Il sarcofago di cemento che seppellisce le 200 tonnellate del nocciolo radioattivo, da lontano sembra un palazzetto dello sport. Quasi tutti lo usano da sfondo per i selfie. Nessun ucraino invece viene mai a visitare questo luogo. È la loro Pompei, ma da dimenticare. A Chernobyl, seminascosta, è tollerata una statua di Lenin non più alta di un paio di metri, l’ultima in tutta la nazione, e senza nome.
Nel giorno della mia visita si registra un’invasione di scienziati tedeschi venuti a fare non si sa bene che cosa. Si lamentano che nei bagni al posto di blocco non c’è la carta igienica. “Fa molto Unione sovietica,” risponde il loro interprete. Prima di uscire, tocca passare sotto le forche caudine di un macchinario che misura il tasso di radioattività. Altri controlli di polizia (non si può portare via niente, tranne qualche malinconico souvenir da un chiosco), poi si rientra a Kiev; alle spalle la metafora perfetta di un grigio potere burocratico che lasciò mano libera agli apprendisti stregoni. Guardo dal finestrino. Il sole al tramonto fa avvampare il cielo; passa dall’arancione al cremisi, dal rosso sangue all’indaco elettrico, dietro la linea nera dei pini, come un’immensa deflagrazione.