Se è vero che nella vita un’occasione è un cavallo in corsa da afferrare per la criniera, si può dure che il giovane scrittore americano A.J. Finn (alias Daniel Mallory) sul quadrupede ci è proprio cascato in pieno dall’alto, e via al galoppo.
Se è vero che nella vita un’occasione è un cavallo in corsa da afferrare per la criniera, si può dure che il giovane scrittore americano A.J. Finn (alias Daniel Mallory) sul quadrupede ci è proprio cascato in pieno dall’alto, e via al galoppo.
A 38 anni, sia pur già affermato nel mondo dei libri come editor di romanzi gialli, noir, thriller, e prevalntemente “di genere” Finn/Mallory ha scritto lui stesso un’opera subito acclamata come un capolavoro. La donna alla finestra (Mondadori, pp. 362, euro 19.50, traduzione di Stefano Bortolussi) è una storia dichiaratamente ispirata all’Alfred Hitchcock della Finestra sul cortile, il giallo psicologico interpretato da James Stewart. Ma qui la protagonista è una donna, Anna, che dall’appartamento di Manhattan in cui è confinata in preda a disturbi psichici amplificati dall’abuso di sostanze, vede e sente cose strane e delittuose, a proposito della famiglia di fronte. Quello che ne deduce è razionale o è solo frutto di allucinazione? In una lunga conversazione, Finn ha parlato in modo vorticoso, quasi volesse scaricare una energia a lungo trattenuta e ora liberata da un successo perfino inaspettato.
Perché lo pseudonimo?
«Perché, essendo io già conosciuto nel mondo editoriale, volevo che l’attenzione si concentrasse sulla qualità del manoscritto. Perché non volevo che qualcuno degli autori con cui ho lavorato pensasse che volevo rubargli qualcosa. Terzo, perché mi interessa, per quanto possibile, mantenere, come autore, una personalità distinta da quella
quotidiana».
Dopo quanto tempo è stato scoperto?
«Tre giorni. Appena sono state avanzate le offerte da varie case editrici».
Le hanno dato due milioni di dollari di anticipo, vero?
«Sì. Senza contare la vendita dei diritti all’estero e quelli cinematografici».
Pagherà un mucchio di tasse…
«Prima di Trump sarebbe stato il 50 per cento, adesso è il 30. Però preferirei pagarne di più e che lui non ci fosse».
È ancora la letteratura a ispirare il cinema?
«Diciamo che se prima si leggevano Thomas Harris o Agatha Christie, adesso si guarda direttamente CSI. Ma la letteratura può e deve stare un passo avanti, perché offre un’esperienza interiore, partecipativa e dunque non passiva, e inoltre personalizzata. Ognuno legge e immagina a suo modo. E poi non bastano i film d’azione della Marvel o quelli di animazione. Già attori importanti hanno detto che quella formula ha i giorni contati. Bisogna metterci qualcosa in più. Guardi Guillermo Del Toro: ha fatto film d’azione, ma poi ha vinto un Oscar con qualcos’altro. La maggior parte dei film e delle serie sono tratte da libri. Prenda Gone girl (L’amore bugiardo), dal romanzo di Gillian Flynn».
Anna soffre di disturbi gravi come depressione, ossessioni, fobie, allucinazioni. È vero che anche lei soffre di patologie mentali?
«Sì. Soffro di sindrome bipolare di tipo due. A lungo sono stato vittima di terribili depressioni, fino a quando non mi hanno prescritto i farmaci adatti. Nel giro di sei settimane, sono stato bene e ho potuto vivere pienamente, e scrivere questo libro in un anno».
I suoi riferimenti, oltre ad Alfred Hitchcock?
«Patricia Highsmith senz’altro per la psicologia dei personaggi e la tensione che è in grado di creare. Andrea Camilleri, che ammiro moltissimo per la scansione e il ritmo. Ho in mente una versione americana in cui ogni suo capitolo è esattamente di 14 pagine. Così come nel mio libro ci sono esattamente 100 capitoli. Poi Tana French per la lingua, che non deve mai procedere con il pilota automatico. Perciò io seguo la regola delle quattro P: Plot, Pacing, Prose, Psicology (trama, cadenza, prosa, psicologia, ndr). Tra l’altro, alla figura di Andrea Camilleri si ispira il personaggio del mio prossimo romanzo, ambientato a San Francisco. Qui gli ispiratori sono la Christie e Conan Doyle».
Lei non definisce Hitchcock come noir (a parte Vertigo e Psycho), per via del senso dell’umorismo e del lieto fine.
«Alla fine un raggio di speranza ci vuole, soprattutto quando hai affrontato temi come i disturbi mentali, la solitudine, il senso di perdita».